| L’avevo icontrata nel 1970, a Roma, durante la lavorazione di “La Califfa”, il film con cui Alberto Bevilacqua esordiva nella regia portando sullo schermo il romanzo che 10 anni prima gli aveva dato larga notorietà. Aveva esitato prima di accettare quel ruolo. Pensava che la protagonista del libro fosse un personaggio tipicamente italiano e che lei non fosse l’attrice più adatta per interpretarlo, ma poi lo scrittore, nel corso di un lungo colloquio a Parigi, era riuscito a convincerla. Ora era contenta di avere accettato, anche perché gli autori avevano tenuto conto delle sue obiezioni, facendo della Califfa un personaggio alle prese con problemi comuni un po’ a tutte le donne, indipendente dalle varie posizioni politiche a al di là del femminismo che infuriava in quegli anni. L’incontro avvenne nella villa che aveva preso in affitto sull’Appia Antica per la durata delle riprese, in un torrido pomeriggio di agosto. Era con lei David Cristopher, il bambino che aveva avuto da Herry Mayen, il regista tedesco con cui s’era sposata nel 1966, poco più di un anno dopo la rottura con Alain Delon. David aveva allora tre anni e mezzo; era d’una bellezza splendente con i lunghi capelli ricci, oro chiaro, e gli occhi azzurri; durante il colloquio , andava su e giù dal salone al giardino, sotto i nostri occhi ammirati. Anche la madre lo seguiva con lo sguardo, amorosamente, ma ne era fiera. Mi disse che lei era stata sempre contraria al matrimonio, che in realtà non aveva mai desiderato che lo stesso Delon, il tempestoso amori degli anni giovanili, la sposasse, ma che poi aveva ceduto alle insistenze di Mayen proprio in vista dell’arrivo di figli; e che ora, pur se la sua carriera non andava avanti come avrebbe voluto, si sentiva più donna, più appagata, più completa. La Romy Schneider di quel tempo aveva ben poco dell’attrice-diva affascinante e supremamente nevrotica che sarebbe diventata nella seconda metà degli anni settanta. Aveva trentadue anni ed era già un’attrice molto nota, ma rifuggiva, non saprei dire quanto studiatamente, da ogni atteggiamento divistico. Mi parve timida e inquieta, molto inquieta, sensibile d’una sensibilità quasi morbosa, vulnerabile, coscia si sé, volitiva e orgogliosa, ma niente affatto scontrosa, capricciosa e dispotica. Piuttosto minuta, la pelle chiara come sgranata e screpolata dall’arsura, non offriva di sé un’immagine abbagliante né stravagante, tipo Dominique Sanda, Marisa Beresan o Maria schneider, ma si intuiva che era una di quelle donne che si “rivelano” all’occasione, quando la personalità viene chiamata in causa, e che sullo schermo subiscono una trasformazione sorprendente, se non una vera e propria mutazione. Il segno più evidente della personalità era nello sguardo, di una intensità inquietante. Parlò con grande franchezza, dicendo che l’esperienza americana l’aveva delusa, che in Germania non aveva nulla da fare, che in Italia nessuno si occupava di lei,e che quindi non le restava altro se non concentrare i suoi interessi professionali in Francia. <america>, disse, <vengono fuori, fortunatamente, film come Easy Rider, ma il sistema delle star pagata profumatamente è sempre in auge e siamo ancora lontani da un radicale rinnovamento del cinema. In Germania il cinema non esiste, i nuovi registi sono quasi tutti mediocri imitatori di Jean-Luc Godard. La Francia è il solo Paese d’Europa nel quale io riesca a trovare lavoro. Tutti mi dicono che il pubblico italiano mi ama, ma nessuno dei grandi registi italiani si interessa a me, tranne Luchino Visconti. Spero proprio che un giorno Luchino Visconti mi offra un grande ruolo, anzi il “ruolo”>. Se non il “ruolo”, Visconti le aveva già offerto due belle occasioni. Il regista italiano l’aveva conosciuta a Spoleto, nel 1958, quando stava già con Delon, e ne era rimasto cosi colpito che non esitò a consigliare all’attore di non lasciarsela sfuggire. Dopo quel primo incontro, l’assunse in pieno nel suo clan, e due anni dopo la prescelse quale protagonista femminile, accanto a Delon, di Peccato che sia una sgualdrina, la piéce di John Ford con cui tornava per la seconda volta sulle scene parigine, dopo la messinscena di Due sull’altalena. Una grande prova di fiducia, tanto più che la Schneider non aveva mai recitato in teatro (se non in qualche piccolo ruolo da bambina con i genitori), che avrebbe recitato in una lingua non propria e che erano due anni che non faceva nulla. Racconta Gaia Servadio in Luchino Visconti: < lo spettacolo andò in scena al théatre de Paris il 29 marzo 1961 e riscosse un enorme successo. Ma Visconti aveva voluto prove su prove, durante la quali le sue collere più insultanti erano riservate a Romy, la giovane e bella attrice dall’aria aristocratica che Delon “giocava” contro Luchino. Nell’attore francese Visconti aveva trovato il suo tormentatore>. In verità lo spettacolo non ebbe un enorme successo. Alla “prima” c’era il “tout Paris”, fu una serata memorabile, ma le accoglienze della critica furono aspramente contrastanti. Quel che è certo è che per Romy fu una grande occasione, un lancio o un rilancio pressoché sensazionale. Qualche tempo dopo Luchino Visconti le offriva una seconda splendida possibilità; il ruolo di protagonista di Lavoro, uno dei quattro episodi di Boccaccio 70 ( gli altri tre furono firmadi da Fellini, De Sica e Monicelli ), tratto da Au bord du lit di Maupassant, nel quale trasformava l’ex “principessa Sissi” in una donna elegante e sofisticata, nello stile di COCO CHANEL, la gran dama parigina che aveva accolto il regista al suo arrivo nella capitale francese, introducendolo negli ambienti intellettuali e mondani e ‘presentandolo a Jean Renoir, del quale Visconti era diventato aiuto. Il film ebbe una rabbiosa stroncatura da parte di Alberto Arbesino, ma valse a mettere in luce le potenziali risorse della Shneider, nonché la sua varia e complessa personalità, come attrice, come donna e come star. Anche se avrebbe dovuto attendere circa 15 anni prima che Visconti le offrisse il “ruolo”, il rapporto che sin da allora stabilì con il regista ebbe un’influenza decisiva per la sua carriera e per la sua vita. Fu un rapporto speciale, quasi da padre e figli, che andava oltre il cinema, andava oltre Delon, oltre ogni evenienza. Con ogni probabilità, tre erano i fattori alla base biografica di Visconti: il carattere forte e orgoglioso, le possibilità artistiche e la bellezza della Schneider. È notorio che il regista amava le personalità forti, che amava tirar fuori con gusto provocatorio le loro risorse nascoste, che amava la bellezza sotto ogni forma, negli uomini, nelle cose e negli oggetti. Fatto sta che egli fece per l’attrice austriaca ciò che non aveva fatto per nessun’altra donna, fino a darle nel film Lavoro il nome dell’unica donna (pupe) in cui era stato innamorato in gioventù, fino a concederle in’intimità assolutamente insolità, fino a donarle un anello che era appartenuto a sua madre. È indubbio che il ruolo che Lucrino Visconto le affidò più tardi in Ludwig - Elisabetta , la bellissima donna per la quale il cugino Luigi II di Baviera nutre un amore a un tempo casto e perverso e che finisce tragicamente – contribuì decisamente a far scattare l’attrice verso le vette del successo e della celebrità. All’inizio degli anni Ottanta, Romy Scheider era in pieno fulgore, acclamata come l’attrice più affascinante d’Europa. Diceva di lei Claude Sautet: < E’ un insieme si fascino velenoso e di purezza verginale. È come un allegro di Mozart. È la vivacità personificata, una vivacità animale, con dei cambiamente d’espressione brutali, dall’aggressività virile alla dolcezza più sottile. È un’attrice che va altri il quotidiano per attingere una dimensione solare >. Diceva di lei Jean-Claude Brialy: < Fiera come un’amazzone, fragile come uno specchio, non sa barare: i suoi slanci, sia violenti che repressi, la trascinano interamente. Ha bisogno delle famiglie in modo vitale, gli amici le sono indispensabili come la vita >. Diceva di lei Bertrand Tavarnier: < E’ un’attrice tragica che non trucca nessuna espressione, nessuna emozione. Quando lavora e come se decollasse, come se andasse molto lontano dalla realtà. Vola, è un’attrice musicale, un’attrice verdiana, a un tempo tragica e lirica >. Pienamente consapevole del ruolo che Luchino Visconti aveva avuto nella sua carriera e nella sua vita, l’attrice non perdeva occasione per mostrargli la sua gratitudine, dichiarando che gli aveva voluto profondamente bene e che non lo avrebbe mai dimenticato. Helmut Berger riferì qualche tempo fa che durante la serata di gala che nell’autunno del 1980 fu dedicata al regista italiano a Parigi, Romy aveva gli occhi umidi, fu più volte sul punto di scoppiare a piangere. Ma né il ricordo di questo affetto profondo, né gli elogi dei registi e dei critici, né il plauso e il clamore nel pubblico, potevano ormai più. La realtà dalla quale tentava di andare lontano l’aveva stretta da presso, aggredendola duramente, spietata,ente. Le ricorrenti crisi di nervi l’avevano stremata, le sciagure che si erano abbattute addosso, il suicidio di Herry Mayen, l’operazione al rene, la morte tremenda di David Christopher l’avevano schiantata. ROMA, 6 giugno 1982
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