| Una bellezza chiamata Califfa. E fu subito scandalo Nel romanzo che rivelò Bevilacqua l' amore fra una popolana e un industriale
«La Califfa sono io», ci sussurra da qualche parte la voce dell' autore, per tutta la durata di questo romanzo. E noi, rileggendolo, dobbiamo ammettere che sì, è vero, la Califfa è Alberto Bevilacqua nello stesso senso in cui madame Bovary era Flaubert, cioè una fonte viva d' ispirazione, una maniera di spiegare il mondo. Infatti la Califfa della favola, al secolo Irene Corsini da Parma, è esistita davvero, sebbene un po' prima di fine anni Cinquanta, l' epoca in cui è ambientata la storia; e Bevilacqua l' ha incontrata almeno nel senso spirituale del termine, nascendo come lei nella piccola capitale europea che ispirò Dickens, Stendhal e Valery Larbaud, respirando l' atmosfera popolare e geniale del quartiere oltretorrente dove imparò a dipingere il Parmigianino e Toscanini bambino venne folgorato per la prima volta dalla rivelazione delle note. Inoltre, la figura della Califfa introduce al mondo letterario di Bevilacqua, nel ' 64 ancora agli albori, e anticipa il senso stesso della vita che si mostrerà nelle sue opere successive: un misto di ingenuità e coraggio, femminilità e passione, fede e volgarità popolana successivamente fissati, agli occhi del pubblico, nel bel volto di Romy Schneider diretta ancora da Bevilacqua nel film che ne fu tratto. Eppure, non tutto è Califfa ne La Califfa: perché il personaggio che vi conosce l' evoluzione drammatica più forte è l' uomo che di lei s' innamora, l' industriale Annibale Doberdò, cui nel film presta il volto Ugo Tognazzi. Sessantenne, padrone economico della città con il suo complesso di fabbriche e di aderenze politiche, ma dominato dalla moglie invalida e tirannica, deluso dal figlio senza nerbo, costretto a consumare gli anni nella gabbia dorata e solitaria del potere, assiste all' entrata in scena della Califfa prima come a un' apparizione, poi a una rivelazione. Proprio lui, burattinaio e burattino, schiavo e padrone di una città intera, sacerdote e vittima dei suoi riti economici e politici, si trasforma rapidamente in un «uomo in rivolta». Grazie alla Califfa, per dirla con Nietzsche, diventa quello che è. Un uomo vero, appassionato, disposto a mettere in gioco persino la sua stessa esistenza, nonostante la salute malferma, per andare sino in fondo, portando alle estreme conseguenze la storia d' amore con la bella Irene. Ma prima che si arrivi a tanto, si deve assistere al dipanarsi di tutta la vicenda, affidata in parte all' io autobiografico della stessa Califfa, e in parte all' io narrante impersonale dell' autore, che ha una funzione di coro e contrappunto. Veniamo a sapere che Irene Corsini è una «slandra», molto più di una prostituta pur essendo di liberi costumi, piuttosto una specie di potenziale «rezdora» padana, quel tipo umano capace di essere anima e animatrice di grandi famiglie emiliane allargate, di tre o quattro generazioni. Il guaio della Califfa, il suo destino amaro, è d' essere nata nell' altra Parma, quella popolare oltretorrente, contrapposta alla città nuova del boom economico e dell' opulenza. Dunque, non potrà mai essere «rezdora»: non ha avuto o voluto un marito rispettabile con un lavoro fisso, dal momento che Guido, da lei sposato per amore, si rivela un ex partigiano generoso ma velleitario. Il figlio che ha avuto da Guido morirà presto, soprattutto perché lei, già vedova, non possiede i mezzi per curarlo. E la virtù se ne andrà presto anch' essa, dal momento che la bellezza di Irene attira i dongiovanni, i perditempo e i giocatori di calcio da periferia, più che i giovanotti con testa a posto e voglia d' accasarsi. È così che si diventa «slandra», spiega con lo scorrere delle pagine la voce impersonale del narratore: piano piano le amicizie si restringono (alla Califfa rimane quella di un' altra «slandra» meno bella di lei ma fedele, chiamata Viola); le visite nella città nuova si diradano, e si finisce per rimanere definitivamente tra le mura dell' altra Parma, quella delle botteghe senza fabbriche e delle casupole senza palazzi. Di solito succede appunto così, ma in tutto questo non c' è niente di infamante: qui, oltretorrente, fin dai tempi di Maria Luisa d' Austria scorre un sangue musicale e artistico, da bohème; qui gli squadristi di Balbo subirono la loro unica sconfitta in campo aperto per mano del piccolo orologiaio antifascista Guido Picelli; e qui se vogliamo, nacque la madre dello stesso Alberto Bevilacqua, che da ragazza si chiamava Cantadori, discendendo appunto da una famiglia di musicisti provenienti dalla Spagna. Ecco perché Viola, la popolana amica della Califfa, le offre l' occasione di presentarsi a teatro abbigliata da gran dama: da lì, inevitabilmente, si metterà in moto la fatale catena delle conseguenze che trascinerà nell' avventura l' inconsapevole (ma solo all' inizio) industriale Doberdò. La relazione fra l' industriale sposato e la «slandra» è in essenza una sfida alla città. Tanto è vero che, per rappresentarla, l' enfant prodige Bevilacqua (scrisse questo romanzo a 23 anni e lo vide deflagrare nel cielo letterario di colpo, dal Giappone alla Turchia, senza una riga di pubblicità) deve ambientarla in una «terza Parma», lontana sia dai palazzi che dalle casupole: la Parma della campagna, dei luoghi bui ed erbosi dove si impara a conoscere il valore della vita. In quell' erba sboccia l' amore fra Doberdò e la Califfa, la decisione scandalosa di mettersi insieme e il fatto compiuto, la rottura con l' ordine costituito che soltanto la morte di lui, per infarto, potrà impedire. È come se, fino a quel momento, la Parma dipinta da Bevilacqua avesse posseduto soltanto due colori, il nero e il rosso. Nere, o grigie, le tonache dei preti ligi alle autorità, le camicie dei fascisti, le grisaglie degli industriali; rossa l' altra parte, quella della povertà e delle rivolte. Ma nel punto in cui la Califfa e Doberdò s' incontrano, la violenza della scossa rimescola i cromatismi. La passione somiglia a una bandiera arcobaleno sventolata sotto il naso di tutti. E la rivolta, istintiva nella Califfa e lucida in Doberdò, ha i tratti di un cristianesimo anarchico e vitalistico, una specie di diritto naturale e libertario alla felicità. Tanto che il testamento spirituale lasciato da Doberdò alla sua «slandra» trova nel paradosso la sua vera conferma: «L' importante è essere vivi, Califfa, vivi!».
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